Liolà (Pirandello)
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Liolà | |
di Luigi Pirandello
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Commedia in tre atti
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Lingua originale | dialetto agrigentino |
Genere | Commedia |
Ambientazione | campagna agrigentina, settembre |
Composto nel | 1916 (versione italiana, ca. 1927) |
Prima assoluta | 4 novembre 1916 |
Teatro: | Teatro Argentina di Roma |
Versioni successive
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Personaggi:
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Riduzioni cinematografiche | Liolà di Alessandro Blasetti, 1964; Liolà di Gabriele Lavia, 2005 |
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Liolà è una commedia di Luigi Pirandello. Quest'opera fu scritta in un momento molto doloroso della vita dell'autore (nel 1916, durante la prima guerra mondiale), a causa del figlio in un campo di prigionia e delle sempre più frequenti crisi della moglie. L'opera, al contrario, è molto gioconda ed allegra, quasi spensierata, al punto che l'autore stesso dirà "è così gioconda che non pare opera mia".
L'opera fu messa in scena per la prima volta il 4 novembre 1916 al Testro Argentina di Roma con la Compagnia di Angelo Musco. Poiché era scritta totalmente in dialetto siciliano, all'inizio pubblico e critica avevano molte difficoltà nel comprendere i dialoghi. Questo aspetto convinse l'autore ad inserire nel libretto una traduzione in italiano della commedia.
La vicenda di Liolà è ispirata ad un episodio del capitolo IV de Il fu Mattia Pascal, altra opera dell'autore. Ha per protagonista Neli Schillaci, detto Liolà. Nome e soprannome erano già stati attribuiti ad un altro personaggio: Neli Tortorici, nella novella La mosca. Liolà è un personaggio spensierato e vagabondo, come si può notare dalla sua passione per il canto e la poesia, in sintonia con il mondo e la natura.
Indice |
[modifica] Trama
[modifica] Atto I
L'azione è ambientata nella campagna agrigentina, a settembre. Nella prima scena si vedono delle contadine intente a schiacciare mandorle nel podere della zia del protagonista, sorvegliate dal cugino di quest'ultima, il ricco zio Simone Palumbo. Quest'ultimo è in pena perché, nonostante quattro anni di matrimonio in seconde nozze con la giovane Mita, non ha ancora un figlio a cui lasciare la "roba", cioè tutti i suoi averi. Su di lui e su questa sua ossessione convergono le trame dei giovani Liolà, Truzza e Mita. Tuzza è la figlia di zia Croce, la proprietaria del podere, mentre Liolà è uno spensierato bracciante. È un grande seduttore, un dongiovanni, tanto che ha reso madri tre ragazze, tenendosi poi i figli ed affidandoli alla madre, zia Ninfa. Mita è un'orfana che zio Simone aveva preso in moglie sperando così di coronare il sogno di un erede, e per questo disprezza la moglie per una sua presunta sterilità.
Tuzza per far dispetto a Mita, che prima delle nozze aveva una tresca con Liolà, si lascia sedurre da quest'ultimo e ne rimane incinta. Liolà allora si sente in dovere di riparare al torto fatto e chiede la mano a Tuzza, la quale tuttavia rifiuta. Essa, infatti, non vuole un marito che "sarebbe di tutte". Con la complicità della madre, invece, tenta di far riconoscere il figlio dallo zio, vecchio ma ricco.
[modifica] Atto II
Nel secondo atto lo zio Simone è ormai raggirato da Truzza, e con fierezza grida alla moglie che il figlio di Truzza è suo e, per questo motivo, deve lasciarle tutto. Per fuggire dalle ire del marito, Mita si rifugia nella casa di zia Gesa, vicina di casa di Liolà. Quest'ultimo è legato a Mita dal rancore nei confronti di Truzza: lui perché offeso dal rifiuto delle nozze riparatrici, lei perché con l'inganno le sta portando via il marito e i suoi averi. Liolà allora offre alla ragazza le sue risorse di amante prolifico per dare allo zio Simone l'erede tanto voluto, ma lei rifiuta. La sera, però, gli apre la porta di casa.
[modifica] Atto III
Nel terzo atto, che si svolge un mese dopo nel periodo della vendemmia, zio Simone annuncia che la moglie gli ha dato finalmente un figlio legittimo. A questo punto il vecchio vorrebbe che Liolà prendesse in moglie Tuzza, ma lui rifiuta, perché sposandola avrebbe perso tutta la sua spensieratezza, affidando anche a questo bambino alla madre. Tuzza, furibonda, si scaglia addosso a Liolà con un coltello, riuscendo però solo a fargli un graffio.
[modifica] L'opera nella critica
Antonio Gramsci fece notare nell'Avanti! che l'opera non ebbe molto successo perché il pubblico, nel finale, voleva "il sangue o il matrimonio". Aggiunse anche, però, che quest'opera
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« è il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello, è una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, Mattia Pascal, il melanconico essere moderno, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica » |
(Antonio Gramsci)
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[modifica] Temi trattati e significato dell'opera
Liolà è un semplice bracciante che con la sua allegria e spensieratezza mette a soqquadro il microcosmo che lo circonda. Egli non è toccato dalla brama di benessere materiale che opprime i personaggi che lo circondano e, in generale, tutta la società. Una società di tipo verghiano per gli interessi da cui è spinta, per il riferimento fisso alla "roba".
Tipicamente pirandelliana, invece, è la conclusione degli eventi: il trasgressore delle regole è in realtà l'unico veramente generoso e buono in mezzo a personaggi egoisti e spinti dalla fame di benessere. Aiutando Mita ad essere riammessa in casa del marito mettendola incinta, Liolà dimostra di avere un certo senso di giustizia, che lo spinge a ristabilire la situazione iniziale a favore di chi è stato ingiustamente danneggiato e contro chi ha usato la frode e l'inganno per raggiungere i suoi fini.
[modifica] Versioni successive
Nel 1935 venne portata in scena una riduzione di Liolà in dialetto napoletano, adattata da Peppino De Filippo con la partecipazione di Luigi Pirandello, che assistette anche alle prove. La prima avvenne al Teatro Odeon di Milano il 21 maggio, con Peppino nel ruolo di Liolà, Eduardo in quello di Don Emilio (trasposizione dello Zio Simone) mentre Titina De Filippo nel corrispettivo di Tuzza. La scena venne spostata dalla campagna agrigentina a quella amalfitana.
[modifica] Trasposizioni cinematografiche
- Liolà di Alessandro Blasetti, 1964
- Liolà di Gabriele Lavia, 2005