Curaro
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Il curaro è un estratto vegetale preparato a partire da numerose e varie piante della foresta amazzonica, utilizzato dagli indigeni delle zone come veleno da freccia per la caccia e la guerra.
[modifica] Storia
Nel XVI secolo gli esploratori occidentali osservarono gli indigeni delle zone del Perù, Brasile, Ecuador e Colombia usare un veleno da freccia chiamato Curari o Woorali, in grado di uccidere animali e uomini in pochi minuti, anche solo dopo una ferita superficiale. Il veleno può essere usato per la caccia perché il veleno, mortale quando penetra direttamente nel torrente ematico, viene degradato facilmente dai succhi gastrici.
È solo nel XIX secolo che la preparazione del curaro fu descritta in maniera dettagliata ed esatta, da parte dei grandi esploratori von Humboldt e Bonpland. Il curaro viene preparato a partire da chondrodendron tomentosum, abuta e curarea (tutte liane), mescolate a volte con strychnos. Le cortecce vengono grattate e poste in una foglia messa a guisa di imbuto, appesa a due lance. Acqua fredda viene versata nell'imbuto e fatta percolare, il liquido scuro gocciola e viene raccolto in un recipiente di ceramica. Il liquido raccolto viene portato all’ebollizione varie volte per farlo schiumare, fino a che non si addensa lentamente. Il liquido viene raffreddato e quindi scaldato un'ultima volta, fino a che non si forma uno strato vischioso che viene rimosso. Le punte delle frecce vengono bagnate nel liquido ed essiccate al fuoco. Gli indigeni parlavano di curaro "un albero" e "curaro tre alberi" per distinguere il curaro potente (una scimmia avvelenata può solo compiere un balzo da un albero ed un altro) e quello meno potente (la scimmia può saltare fino a tre alberi)[citazione necessaria]. Ciò che più colpisce di questa preparazione è il fatto che i popoli cacciatori fossero riusciti a capire l’efficacia del veleno attraverso le lesioni ma non per ingestione, capendo che era possibile utilizzarlo per la caccia.
Nel 1820 Charles Waterton comprese il meccanismo d'azione del curaro: sperimentò infatti il veleno su una mula che finì in morte apparente per poi venire rianimata grazie alla ventilazione forzata. La pianta agisce quindi sulla respirazione, bloccandola e provocando la morte per asfissia. Nel 1844 il grande fisiologo francese Claude Bernard conferma che il curaro agisce bloccando la trasmissione nervosa alla muscolatura. Negli anni venti del Novecento uno studioso americano, Richard Gill, spese molti anni con gli indigeni ecuadoriani e studiò attentamente la preparazione del curaro. Nel 1938 ritornò negli USA con qualche chilo di curaro e cercò di interessare le case farmaceutiche ad una sostanza che credeva molto promettente. Nel frattempo infatti il chimico King, nel 1935, era riuscito ad isolare il principio attivo del curaro. Dato che non possedeva alcun campione di curaro, King aveva dovuto utilizzare per le sue analisi il campione originale di Spruce conservato ad Harvard. Dato che il campione era conservato in un tubo, la molecola si chiamò tubocurarina (la struttura proposta da King risultò poi errata, ma la molecola era stata isolata). Gill non riuscì a trovare appoggi se non anni dopo, e solo nel 1941 iniziarono i primi esperimenti sugli animali. La tubocurarina viene aggiunta agli anestetici per le operazioni chirurgiche, ma gli animali muoiono di asfissia. Nel 1942 Harold Griffith e Edin Johnson capiscono che all'utilizzo della molecola deve essere sempre associata la ventilazione forzata e nello stesso anno compiono molte operazioni su esseri umani.
[modifica] Utilizzo
Dato che la tubocurarina rilassa completamente (paralizza) la muscolatura, è possibile utilizzare dosi molto più ridotte di anestetico. La tubocurarina si lega ai recettori postsinaptici per l'acetilcolina bloccandoli, impedendo l’azione stimolante dell’acetilcolina.